di Mattia Civico* e Piergiorgio Reggio**
Ricorre oggi il centesimo compleanno di don Lorenzo Milani, il Priore di Barbiana. Lo sentiamo testimone prezioso, generoso ed incisivo perché, pur in una condizione di esiliato dalla Chiesa e dalla società del suo tempo, ha avuto la straordinaria capacità profetica di mettere al centro questioni fondamentali tutt’ora attuali. La sua scuola, sempre aperta e spesso all’aperto, ha concretamente proposto cultura e conoscenza come strumenti per il riscatto degli esclusi e per la lotta a ingiustizie e diseguaglianze. Da Barbiana è scaturita l’affermazione del valore della cultura di chi vive in montagna, che era ed è differente ma non inferiore a quella di chi vive in città. La sua scuola, senza giudizi e senza voti, ma anche senza vacanze e senza ricreazione, ha dato una concreta alternativa di vita a giovani che, fino ad allora, avevano solo l’opzione della stalla (“la scuola è meglio della merda”). La piccola scuola di Barbiana diventa così una palestra, severa e rigorosa, di lettura della realtà e di sviluppo del senso critico. Lontana dal mondo ma, proprio perché distante, affacciata su di esso per interrogarlo senza indulgenza. Le lettere inviate da Barbiana, quelle scritte dal Priore con i suoi ragazzi, inviate ad una professoressa, ai cappellani militari e quelle scritte alla sua mamma, rilette oggi, ci consegnano la sfida ancora attuale della necessità di denuncia delle incoerenze e delle ingiustizie sociali. Un prete obbediente, fino alle estreme conseguenze, che ha provocato le coscienze e preso parte con decisione quando le circostanze lo imponevano. Per questo don Milani, ancora oggi divide. Egli si è schierato dalla parte di chi è escluso denunciando che bocciature a scuola, svalorizzazione delle culture minoritarie e discriminazioni nei confronti di chi non è istruito si spiegano non con la “teoria delle attitudini” (vi è chi è più portato per pensare e chi per fare) ma con ragioni strutturali – di carattere economico, culturale e politico – che rispondono ad un chiaro disegno di controllo sociale. Le Barbiane di oggi hanno ragazzi e ragazze che abitano le periferie urbane o che provengono da altri Paesi con il loro carico di speranze e disperazione, ma identiche sono rimaste le cause strutturali che contribuiscono a produrre la loro esclusione sociale. Se la scuola di Barbiana è comprensibilmente terminata con la morte del maestro, il suo spirito più autentico di educazione che cerca di essere e fare giustizia sopravvive nelle pratiche quotidiane di molti insegnanti, educatori e genitori, cittadini che non accettano le contraddizioni sociali come immutabili.
Per questo tornare a Barbiana oggi non è una semplice commemorazione ma serve a riscoprire il senso dell’educare e dell’impegnarsi per una società più giusta. Lì possiamo ritrovare le ragioni ed il significato – spesso smarrito – dell’imparare e dell’insegnare. C’è un episodio della vita del Priore che, forse più di altri, ci racconta non solo il suo carattere determinato e radicale, ma anche le radici più profonde della sua potenza profetica. In obbedienza al cardinale Dalla Costa, il 7 dicembre del 1954, in un giorno di pioggia, egli lascia San Donato di Calenzano e raggiunge (salendo a piedi l’ultimo tratto di una stradina di montagna) la canonica di Barbiana, un luogo sperduto sulle colline di Vicchio, abitate da famiglie di contadini e allevatori: la sua canonica è una casa senza acqua e senza luce, con una piccola chiesetta accanto. Un posto perfetto per chi aveva l’obiettivo di silenziare quel prete scomodo. Alla sua mamma, poco dopo il Natale dello stesso anno, scriverà con severa lucidità: “Non posso però credere che tu desideri che io mi metta nello stato d’animo del passante o del villeggiante. (…) Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani.” Questo il contesto e questi i sentimenti di quell’inverno lontano. Veniamo all’episodio chiave. Il giorno dopo l’arrivo di don Lorenzo a Barbiana, scoperta la desolazione del posto a cui era destinato, egli scende nuovamente verso Vicchio e va a trovare don Renzo Rossi, il cappellano del paese, e gli chiede di accompagnarlo in Municipio, per comprare il terreno per la propria tomba, nel piccolo cimitero di Barbiana: avere il proprio posto in quel campo santo lo avrebbe aiutato a sentirsi “totalmente legato alla sua nuova gente, nella vita e nella morte”.
Barbiana, da luogo di esilio e silenzio, di programmata “morte civile e religiosa” del Priore, da “periferia” diventa “centro”. Questo accade non solo per la genialità, lo spessore spirituale, la cultura e il carattere brusco e radicale di don Lorenzo, ma, crediamo, perché in quel luogo e in quel tempo di vita personale, proprio lì, ha deciso di “comperare il suo campo”. Un gesto radicale, nella direzione dell’obbedienza, che trasforma lo schiaffo ricevuto, in un abbraccio. È la disposizione a pagare fino in fondo un prezzo alto, per amore del suo popolo che tra l’altro ancora non conosceva.
L’episodio pone ancora oggi una questione di fondo che non possiamo eludere e che sentiamo rivolta a noi, al mondo degli adulti, di chiunque vive una qualche dimensione di responsabilità nei confronti di un proprio popolo, piccolo o grande che sia: una famiglia, una circoscrizione, una cooperativa sociale, una scuola, una Chiesa, un Paese: vi è la disponibilità a pagare davvero il prezzo del terreno su cui ci si muove? È un costo sovrabbondante e personale, che non corrisponde e nulla ha a che fare con l’adagio “ognuno faccia la propria parte”. C’è oggi, come a Barbiana ieri, la necessità di agire con eccedenza, andando oltre la dimensione della sola propria responsabilità individuale o del proprio compito, per non correre il rischio di essere nella nostra Barbiana solo dei “passanti e villeggianti”. Ci vuole invece la forza generativa di un nuovo “I care”, “mi importa” per colmare i vuoti e le ingiustizie di oggi.
Il modo migliore per festeggiare il Priore oggi potrebbe allora essere quello di dare uno sguardo meno distratto e fatalista ma più consapevole e critico al nostro mondo colpito da ingiustizie e contraddizioni, attraversato in profondità dallo scandalo della povertà di molte persone, violentato dalla follia della guerra, ancora paurosamente rifugiato nel distanziamento sociale e semplicemente, da Adulti, decidere di “comprare il campo” che ci è stato affidato.
* direttore cooperativa Punto d’Incontro
** presidente cooperativa Progetto 92
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